lunedì 27 ottobre 2008

Addio alla scuola dell´ultima valle

Mentre i provvedimenti del governo minacciano la chiusura delle elementari di montagna, siamo andati a vedere come vivono i bambini della classe dell´Aulo Magrini, nella friulana Val Pesarina Un istituto che chiude è come una campana che rintocca e ti dice che è tempo di far fagotto per sempre
PAOLO RUMIZ
- La Repubblica 26 ottobre 2008

PRATO CARNICO
Scendevano a piedi nella neve dalle frazioni più lontane, con l´abbecedario e la legna da ardere per la classe. Arrivavano magari a digiuno, morti di fame, ma con la legna sempre. Al tempo della miseria la valle aiutava la scuola; per la scuola combatteva il fascismo e le curie oscurantiste rivendicando il diritto alla cultura. Stava lontano da Dio e dagli uomini, nelle ultime Dolomiti friulane, ma già un secolo fa era la più alfabetizzata delle Alpi, con l´ottanta per cento che sapeva leggere, scrivere e far di conto. Un posto che ha ben seminato, e oggi vanta una percentuale di laureati tra le più alte d´Italia. Val Pesarina è il suo nome, e per capire bisogna andarci. È Carnia profonda, ma sembra Svizzera. Prati sfalciati, casette linde con tetti a spiovente ripido e un ticchettio di orologi a pendolo che esce da secoli di raffinata artigianeria. Una storia da leggenda. Nell´Ottocento i boscaioli-orologiai leggevano I miserabili di Victor Hugo e riempivano le case di libri, nel Novecento gli emigranti tornavano dal mondo pieni di idee di libertà. Non mollarono mai, né con Mussolini né poi. Dopo la Resistenza furono isola socialista nel cuore del Friuli parrocchiale. Negli anni Settanta, per combattere l´isolamento, costruirono la prima elementare a tempo pieno d´Italia, accorpando classi elementari in una rete-modello.
E oggi? Fine della storia, si chiude baracca. La democrazia azzera ciò che nemmeno il fascismo riuscì a distruggere: l´autonomia dei territori. Il nuovo verbo è accorpare, omologare, centralizzare. Secondo il governo di questo Paese le piccole scuole di periferia devono traslocare perché costano troppo e, poiché metà della provincia italiana è fatta di montagne, dovrà scendere a valle la montagna, e con essa l´elementare "Aulo Magrini" della Val Pesarina, ex Casa della gioventù littoria di Prato Carnico, ventitré allievi divisi in due pluri-classi, ultimo presidio culturale rimasto di una magnifica comunità che ebbe dalla Repubblica di Venezia e dall´Impero asburgico specialissime autonomie. Ma Prato Carnico e la sua valle - con la sua storia e i suoi paesi, più autentici di qualsiasi zuccheroso borgo sudtirolese - altro non è che il segno della sconfitta della montagna italiana in generale. Una montagna che è stata più ricca, evoluta e alfabetizzata della pianura, e oggi non conta più nulla, nonostante l´emergenza idrogeologica del Paese. Alla faccia del federalismo.
Li abbiamo incontrati nel loro mondo semplice di pennaiuoli, abbecedari e tabelline, i ragazzi dell´ultima valle, in una sfolgorante giornata d´autunno. Eccoli: i più piccoli hanno appena finito lezione di matematica e stanno costruendo una diga con terra e acqua. Altri giocano al "cacciatore e la volpe" nel campetto sul lato della cucina. Ragazzi puliti, svegli, lontanissimi dai bambini stressati della metropoli, si inseguono a perdifiato, ruzzolano a terra, si spolverano i pantaloni sulle ginocchia e riprendono a correre. «Sai da cosa distingui i ragazzi di campagna e di città?», chiede la maestra Elsa Martin, nata e cresciuta in questa valle. «Li distingui da come sanno cadere. Questi rotolano, vanno giù morbidi anche sul cemento. Quelli di città sono pieni di lividi perché non mettono nemmeno le mani avanti, usano le dita solo per i videogiochi? È il segno che non esplorano, sono saturi di tv e impediti a crescere liberi da un parentado vecchio e iperprotettivo».
L´Italia ha perso l´uso delle mani. Te ne accorgi qui, dove i bambini sono affamati di manualità e la sera tornano a casa sporchi di fango.Le malghe sui prati alti, sopra il bosco. L´incendio giallo dei larici e il rosa delle dolomie sul lato di una montagna incantata chiamata Clap Grande. In quota le marmotte pronte al letargo e, sui boschi oltre Pesariis, i cervi nella stagione degli amori. Di notte li senti, sopra la chiesa; lanciano richiami cavernosi che mettono i brividi. I ragazzi della scuola conoscono bene la geografia di questo mondo perché arrivano ogni giorno dalle frazioni più disperse. Posti dove i cognomi finiscono per consonante - Rupil, Martinis, Puntil - e i paesi portano nomi antichi come Osais, Truja, Avausa, Pieria, o la misteriosa Pradumbli. Sulle erbe di montagna - in friulano locale "jerbas di cjanal" - i ragazzi e gli insegnanti hanno fatto un lavoro a tappeto: hanno raccolto piante, ricette, proverbi dei nonni, testimonianze dei più vecchi, testi di botanica, parole locali quasi dimenticate. Risultato: oggi in Pesarina sono i bambini che insegnano agli adulti la flora alpestre, e non il contrario. Sono loro a spiegarti che la "lenga di vacja", o salvia selvatica, va infarinata e fritta con lo strutto.
Nei vent´anni che è stata qui, Adele Nardelli, laziale, ex direttrice didattica della zona con base a Ovaro, in Val Degano, ha assistito a una vera e propria «falcidia demografica». Culle vuote, con anni segnati da due o addirittura una sola nascita. Cosa logica, si è subito cominciato a parlare di accorpamenti. «Se si è troppo pochi - ammette l´insegnante - in classe ci si annoia, mancano stimoli esterni, cade la competizione positiva fra i ragazzi». Ma è anche vero che se si accorpa con provvedimenti calati dall´alto, «si sradicano i ragazzi dal loro ambiente». Conclusione: serve una via di mezzo sperimentale che tenga conto di novità come la teledidattica oppure il pendolarismo con altre scuole su alcuni moduli di insegnamento. L´attuale direttore Riccardo Carrera conferma: in posti così la scuola «fa comunità» ed è, in assenza d´altro, l´unico fattore di attività esterne. Se finisce, si rompe una diga. Una scuola che chiude è come una campana che rintocca e ti dice che è tempo di far fagotto per sempre.
Qui lo sanno bene. La storia è cominciata vent´anni fa, con l´apertura dei primi supermercati giù in pianura. Lentamente, l´economia periferica ha perso forza perché l´apparato politico e burocratico pendeva per la grande distribuzione. Così in montagna hanno chiuso i bar, poi le panetterie, le farmacie, le latterie sociali e le sezioni dei partiti. Alla fine anche i preti se ne sono andati perché la curia aveva cominciato, con la stessa logica, ad accorpare le parrocchie. È stato peggio, molto peggio dell´emigrazione. In pochi anni i paesi si sono trovati senza punti d´incontro, i giovani se ne sono andati ed è cresciuta la rabbia contro la politica. Una rabbia irreversibile, la stessa che ha generato la Lega Nord nella sua fase iniziale, rivoluzionaria, secessionista e anticlericale. In quarant´anni le scuole elementari della valle sono passate da cinque a una. Ma la scuola non è che l´ultimo sintomo di una peste silenziosa che desertifica la montagna per trasformarla in serbatoio idrico delle metropoli, parco a tema per gitanti domenicali o spazio di transito per superstrade e ferrovie veloci.
«Se muore la scuola, muore la comunità», taglia corto Niccolina Miccoli, insegnante elementare in pensione e indomita partigiana del tempo pieno negli anni in cui prese piede in Italia. Ha un´idea chiara di cosa significherebbe il trasloco nella sezione maggiore di Ovaro. «La gente direbbe: bisogna spostarsi sei chilometri più a valle, ma perché devo andarci se anche lì fatalmente la scuola comincerà a far acqua? Tanto vale portare i bambini fino in pianura. Ma allora, a questo punto, mi conviene traslocare anche a me». A Roma non hanno la minima idea dell´effetto-valanga che un provvedimento del genere avrebbe sulla presenza dei comuni in campo sociale. «Qui in Pesarina la mensa della scuola elementare cucina anche i pasti a domicilio per gli anziani non autosufficienti», ricorda Erica Gonano, giovane e brava assessore alla cultura del Comune di Prato Carnico. «Se chiude la scuola, finisce anche quel servizio che finora abbiamo svolto a costo quasi zero. Ma vaglielo a spiegare a Roma».
Una volta lo Stato c´era. Eccome se c´era, racconta la Miccoli. Per risolvere l´isolamento di alcune scuole si facevano assemblee cui partecipava tutta la popolazione, il sindaco, il provveditore agli studi, il parroco; la gente non se ne stava chiusa in casa a guardare la tv. «Per tenere alto il livello culturale della valle, bloccare l´analfabetismo di ritorno e monitorare il territorio a partire dalla scuola, fu inventato il Csep, centro sociale di educazione permanente, aperto a tutti, adulti e anziani compresi. Per due lire in più furono gli stessi insegnanti a fare il lavoro, che ebbe costo zero ma risultati straordinari? Qui abbiamo lavorato duro per decenni, senza mai guardare l´orologio, non posso accettare che mi vengano a dire che noi, proprio noi siamo diventati un costo. E soprattutto non posso più assistere allo scempio che ogni nuovo ministro fa appena va al potere, come se tutti i suoi predecessori fossero degli imbecilli».
Qua la scuola ce l´hanno nel dna. Già nel Settecento la gente pagava per avere un maestro. Alla fine dell´Ottocento la Carnia aveva, in percentuale, il record di scuole femminili del Regno. Le case di frazioni come Pradumbli sono vere e proprie biblioteche che, se l´Italia fosse un Paese normale, andrebbero dichiarate patrimonio sotto tutela. Su uno degli orologi meccanici che la Solari - la famosa ditta nata in valle che ha automatizzato i tabelloni orari negli aeroporti di mezzo mondo - ha piazzato nelle strade di Pesariis, il quadrante è diviso in tre parti: otto ore per il lavoro, otto per il sonno e otto per lo studio. Giulio Magrini, ex politico, ex socialista e figlio dell´Aulo cui è dedicata la scuola di Prato Carnico, ricorda che nel 1944, in piena resistenza, la zona libera della Carnia lavorò per rimettere in piedi la scuola e in assenza di testi che non fossero fascisti, adottò il libro Cuore per decreto della giunta di Ampezzo.
Dolores Martin ha novantuno anni ma una memoria di ferro e mi scruta con occhi che passano continuamente dalla tristezza a un´ironia allegra. Sua madre e suo marito furono insegnanti elementari della valle, e nelle sue parole c´è un secolo di storia. «Quanta fame c´era. Le classi erano piene di affamati. Prima di interrogare un bambino la mamma chiedeva sempre: hai fatto colazione oggi?». I ragazzi venivano a piedi da lontano, da frazioni come Tuja o Sostasio, con la legna per scaldare la classe. Tutti sapevano che la scuola era importante. Poi i ragazzi divennero soldati e partirono per la guerra, e Dolores, che lavorava all´ufficio postale, vedeva l´ansia delle madri in attesa di una lettera. La Russia fu tremenda, non tornarono in diciassette. «Mio marito fu maestro per quarant´anni, e si aspettava come tutti la medaglia d´oro dello Stato. Ma lo Stato ci disse che non ci sarebbe stata medaglia, perché in quei quarant´anni erano stati computati la guerra e la prigionia. Ce lo scrissero per lettera, con tassa a carico del destinatario».

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